Abbarbicato ad aspre rocce sul litorale andaluso, lontano dai grattacieli in vetracciaio delle metropoli balneari, sbattuto dai venti, macerato dal sole, corroso dal sale, sta il rifugio di daGabry – silente. Le persiane abbassate, la porta accostata, della gloriosa potenza del sole, della luce, dell’aria non penetra all’interno che un debole soffio, buono per disegnare giochi d’ombre sui muri scalcinati, per illuminare tutt’al più la frenetica danza di milioni di corpuscoli di polvere sospesi in un’aria altrimenti immota. Appoggiato al bancone, la testa presa tra le grandi mani, daGabry osserva, senza vederlo, il coltello appoggiato lì, quasi apposta, sul bordo del ripiano. Il coltello è sporco, ha tagliato del formaggio. Gorgonzola. Ne resta un’inezia appiccicata sulla lama, una punta da niente, ma sufficiente perché se ne possano intuire le venature verdi, malate, putride ed indecenti solcare la materia giallognola che già ha cominciato a trasudare, e farsi gelatinosa lungo i bordi. Una teoria lunghissima di piccolissimi ragnetti ignudi percorre le vene infette del formaggio, si spande sul legno unto del bancale, cade al suolo senza rumore, trova il gomito di daGabry e lo invade, risale il suo braccio indifferente, dilaga sulla mano e di qui sul cranio di quest’uomo grande e spossato. daGabry cerca con lo sguardo spento la sua coppa di assenzio, intinge un dito a rimestare ciò che avanza: una broda dall’insopportabile tanfo di anis, dolciastro e falso, in cui nuotano annoiati gli ultimi resti di icebergs d’altri tempi. daGabry si sente un poeta maledetto, sente piantato nel proprio cranio il nero vessillo dell’Angoscia, sente dentro di sé, intero, il male del mondo, un pozzo oscuro e senza fondo.
E oltre a tutto l’armamentario di dolore e miseria tipico d’ogni poeta maledetto che si rispetti, oltre ai pipistrelli, al buio della mente, all’agonia di infiniti giorni tutti uguali ed infinite notti, ognuna d’esse eterna, oltre a tutto questo e a molto altro ancora, daGabry porta nel suo petto amplio ma distrutto una pena sua intima, segreta ed orribile, che lo distingue dai Baudelaire, dai Verlaine, dai Guccini di tutto il mondo. daGabry non riesce a scrivere. Ha comprato due bic nere: una l’ha persa subito, l’altra scrive malissimo, tutto a pettole e intoppi, non va bene neanche per la lista della spesa, figuriamoci per degli eccelsi poemi maledetti e decadenti. Ma non è la biro, il problema, daGabry sarebbe disposto a cavarsi il sangue pur di stendere al volo questi maledetti poemi eccelsi. E decadenti. Neanche aver appoggiato per sbaglio la pentola del sugo su quel bel foglio di carta A4 che veniva proprio al caso, nemmeno questo è il problema. Il Dramma è lei: lei che se ne è andata, come sempre, senza dire addio né nulla. Lei, la maledetta Ispirazione, senza la quale non riesci a buttare giù uno straccio di rima baciata, altro che poemi eccelsi. E basterebbe così poco, anche poesiole di 10-15 righe possono andare benissimo per un buon poeta maledetto. Poi al limite muori giovane e la sistemi così.
Invece niente. I ghiacci dell’assenzio si sono ormai sciolti da lungo tempo, l’assenzio stesso è quasi svaporato, daGabry prende di nuovo in mano la bic nera, con gesto lento e sofferente, ben fatto. Sospira, un sospiro che è anche un singhiozzo, che è il pianto di bambini spaventati e di demoni torturati nell’inferno. Ottimo anche il sospiro. L’atmosfera è quella giusta, forse s’ode anche un’upupa regalare il suo lugubre verso, un ragno peloso osserva dall’alto; daGabry appoggia la punta della biro sul foglio macchiato d’unto e, mondocane, non gli viene proprio nulla da scrivere – nulla.
Cani impazziti latrano nel cervello di daGabry, marce funebri e carri di appestati, un letto di viole marcite, un cadavere di donna, bianco sotto la luce della luna, ancora più cani, più frastuono, un baccanale di dolore, di pianto di disperate illusioni infrante; daGabry si prende di nuovo la testa tra le grandi mani, si alza a fatica, vorrebbe urlare la propria angoscia, ma gli esce un singhiozzo, un rantolo etilico. E un ruttino. daGabry barcolla, sta per crollare, ma riesce a trascinarsi di là in qualche modo. Ha infilato la porta del bagno, riesce a mettersi sotto la doccia. Un’acqua putrida comincia a rigargli il viso e il corpo squassato dal Dolore. Un’acqua immonda, dolorosa anch’essa, comincia a lavare quest’omone, a portarsi via secoli di inumana sofferenza, e a poco a poco l’acqua si fa più chiara, e il corpo si ristora, i muri si raddrizzano, forse c’è più luce, anche il Dolore, ‘sto dolore non è che faccia poi ‘sta gran paura, in fondo. Poco più di un fastidio, ormai. Già che c’è, daGabry piglia anche lo sciampo alle erbette provenzali e si immerge in una nuvola di spuma purificatrice e anche le ascelle e il resto, che in due minuti ce lo ritroviamo fresco e pimpante, giusto un po’ stordito, ma quello fa parte del personaggio. Si infila dei bei bermuda rossi con fioroni bianchi e fischiettando Piccola Katy dei Pooh pensa: “Diobono che ciucca iersera!“. Torna in salotto tutto contento, ma affamato. Toh, su quel coltello è rimasto un tocchetto di Gorgonzola. Se lo spazzola, è buonissimo, glielo porta un amico suo carissimo di Saronno: “Devo ricordarmi di farmene portare di più, la prossima volta“. Tira su le tapparelle, ammazza quel ragnaccio con il giornale e raggiante come un bimbo daGabry si porta in terrazza, questa sua bella terrazza che dà proprio sul mare, e che mare! Così contento che, grattandosi un attimo le palle, gli viene da improvvisare una bella poesia:
Ma che bello stare al mare
a fare festa e a cantare;
ma che bello stare in Spagna
l’importante è che se magna.
“Proprio bella” pensa daGabry “magari la scrivo su un cartello e la appendo nel bar“, ma già ha la testa da un’altra parte, dietro a una ricetta che aveva letto una volta per fare la seppia in umido: mandorle tritate, pepe nero, e poi? che altro? Se gli mettessi un pizzico di cilantro? Quasi quasi…